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Oggi il virus per eccellenza è indubbiamente l’indesiderato protagonista che condiziona le nostre giornate, battezzato Corona Virus o Covid19. Per questo mi ha incuriosito ed anche un poco divertito scoprire che c’è un “virus anglico”. Lo ha argutamente smascherato la professoressa Marcella Bertuccelli Papi, docente di lingua inglese al Dipartimento di filologia, letteratura e linguistica dell’Università di Pisa: sarebbe il virus che ha approfittato della pandemia per infettare ulteriormente la nostra bella lingua con i termini della lingua inglese. E certo! Che non lo so che siamo stati, forse ancora siamo e magari ancora saremo, in lockdown? Roba che suona più importante e pure più figa di “isolamento”. E lo so che le “goccioline” che sputacchiamo parlando sono droplet, che diamine! E so che davanti a un corridoio d’ospedale ti compare davanti minacciosa quella scritta dal suono triviale, vagamente osceno, triage, che ti fa immaginare un rapporto a tre, tutto pur di non usare la parola “smistamento”, forse troppo proletaria, da operaio. E pensare che l’annosa e perdente resistenza all’inglese è nata proprio qui a Trieste, nel primo dopoguerra, quando eravamo liberati e anche occupati dagli angloamericani. Ero piccolo, i figli degli americani, nostri coetanei, ci cazzottavano con sommo disprezzo ma noi ci rifiutavamo di pronunciare la parola chewing-gum e dicevamo italianamente gomma americana oppure, in dialetto, “cica”. Ricordo che alcuni compagni, meno acculturati, pur sedotti dal gioco cow-boys contro indiani, pronunciavano com-boys con la m, perché la doppia vu la consideravano un errore di scrittura, una emme capovolta. Resistemmo eroicamente al foot-ball che restò calcio, al corner che restò calcio d’angolo, all’off side che restò fuori gioco. Col basket si fece più fatica ma riuscimmo ancora a imporre la pallacanestro, la pallavolo contro il volley ma già la palla ovale cedeva a favore del rugby. E ricordate i saponi e i dentifrici, tuttora esistenti, Palmolive e Colgate, pronunciati all’italiana e mai, a tutt’oggi, con la corretta pronuncia inglese. Qualcuno già storceva il muso, ansioso di emanciparsi dal fascismo che italianizzava tutto, anche i cognomi slavi ma questa è un’altra storia. E poi certe cose che andavano per la maggiore mica avevano un equivalente italico: il jazz restava jazz e il boogie-wooogie come volevi pronunciarlo se non bughivughi? E il Rock and Roll? Poi, per forza di cose, il nostro Teddy Reno cominciò a cantare in inglese….In effetti, pian piano ma inesorabilmente, il virus anglicus -isolato dalla professoressa Marcella Bertuccelli Papi- varcò i confini del TLT e si sparse dalle Alpi alla Sicilia, contagiando e rendendo tutti portatori sani. Ben spesso sarebbe ormai il vocabolario formato da parole inglesi che hanno soppiantato nell’uso le equivalenti italiane, inutile elencarle, sarebbe un malinconico elenco. Del resto è anche vero che la lingua inglese è diventata ufficialmente la lingua internazionale degli incontri al vertice, della finanza, dei congressi. Dunque è inutile recriminare, inutili e persino un po’ patetiche le lamentazioni dell’Accademia della Crusca, i cui esimi componenti sono ormai una sorta di cavalieri templari senza più armi, destinati all’estinzione. Eppoi, diciamoci la verità, non usiamo forse con una sorta di voluttuoso piacere computer e smartphone? Compariamo sul web, cazzeggiamo su facebook, twittiamo allegramente, pronunciamo hashtag col risucchio. Rassegnamoci alla sconfitta, dai…e pensiamo al lessico inglese che vediamo luminoso all’orizzonte. Quale? Ma il Recovery Fund che deve assicurarci un avvenire e mica puoi chiamarlo “fondo di recupero” come se fosse qualcosa inerente alla spazzatura! Infine sapete che vi dico? Se proprio amate la lingua italiana di vero amore e avete i cabbasisi per farlo, leggetevi per davvero La Divina Commedia di padre Dante e non se ne parli più.
Leandro Lucchetti