
All’improvviso sui giornali italiani appare una non-notizia. Nel Kočevski rog, massiccio montano coperto da impenetrabili foreste nel sud della Slovenia viene esplorata una „fossa comune“ e vi vengono recuperati i resti di 250 persone, per lo più giovani. Forse anche un paio di donne. Ed ecco scatenarsi la cagnara in Italia, dove certa stampa, tra cui l’organo dei vescovi “Avvenire”, sparano la notizia del rinvenimento di una “foiba” con 250 vittime, quasi sicuramente italiane. Il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri chiede subito una commissione di inchiesta, l’Unione degli Istriani continua a proporre nei consigli comunali di tutte le provincie mozioni affinché venga tolta a Tito l’onoreficenza concessagli dal presidente della repubblica Saragat negli anni sessanta… Che senso ha tutto questo? Certo che ce l’ha, se si guarda dal punto di vista delle destre e della necessità da loro fortemente rappresentata di stravolgere l’assetto costituzionale italiano ed in particolare l’antifascismo che ne è il fondamento principale. Il tutto con la benedizione del parlamento europeo che mesi fa ha approvato (anche con i voti del PD!) una mozione che equipara nazifascismo e comunismo invitando i popoli europei a rimuoverne i simboli. La storia tormentata della Venezia Giulia e dei rapporti italo-jugoslavi sono così il terreno fertile per speculazioni e stravolgimenti continui, anche a prezzo del senso comune di decenza. Rafforzate in ciò dall’ambiguità dei gesti compiuti a Trieste dai presidenti italiano e sloveno a metà luglio. Ma torniamo alle cronache della fossa comune vicino a Kocevie. Non si può dire che si tratta di un rinvenimento casuale, dato che una commissione statale slovena da alcuni anni continua ad esplorare anfratti, voragini, fosse comuni in tutto il territorio della repubblica col compito, stabilito per legge, di censirle, individuare i resti umani, stabilendone possibilmente l’appartenenza militare o civile e quindi attribuendone la morte ad uno degli eventi succedutisi nell’immediato dopoguerra. Furono momenti di grande tensione con gli alleati occidentali che ammassarono ingenti forze militari ai confini mentre in Jugoslavia continuava la guerra civile con gli eserciti collaborazionisti sconfitti che si ritirarono nella Carinzia austriaca consegnandosi agli angloamericani. Erano convinti di poter usare le proprie armi per aiutare gli alleati a cacciare Tito ed il potere partigiano. Nella fuga si macchiarono di orrendi crimini, anche se la seconda guerra mondiale formalmente era conclusa. Gli inglesi, comandati da Harold Mc Millan (che in seguito divenne premier della Gran Bretagna), decisero di rispettare gli accordi tra le potenze vincitrici e consegnarono le truppe collaborazioniste – domobranci sloveni, ustascia croati, cetnici serbi, balisti albanesi – ai paesi che essi avevano tradito combattendo contro il proprio popolo. In Slovenia si ritrovarono alcune centinaia di migliaia di uomini e vi fu una prima cernita. I minorenni vennero mandati a casa, a meno che non si siano macchiati di gravi crimini di sangue. Gli altri vennero rinchiusi in campi di prigionia dove furono giudicati. Una buona parte venne giustiziata proprio nelle foreste del Kočevski Rog. Per decenni la loro sorte rimase nascosta, anche se tutti sapevano che fecero una brutta fine. Ne parlò esplicitamente lo scrittore Ivo Svetina nella sua triologia partigiana “Ukana” (L’Inganno), poi ne scrisse lo scrittore triestino Boris Pahor che assieme ad Alojy Rebula pubblicò un’intervista col dirigente cattolico della resistenza slovena, il poeta Edvard Kocbek. Per alcuni anni gli venne proibito di entrare in Jugoslavia, anche se poi l’intervista incriminata venne ripubblicata da un settimanale di Lubiana. Ancor prima dell’indipendenza della Slovenia si tenne proprio nel Kočevski Rog una messa solenne per le migliaia di giustiziati. Vi tennero discorsi di conciliazione storica il “primate” sloveno Šustar ed il presidente della repubblica Milan Kučan, già presidente del CC della Lega dei comunisti sloveni. Fu il primo tentativo di superamento di antichi rancori nel momento in cui la Slovenia aveva bisogno del massimo di unità popolare. In seguito fu deciso di censire le fosse comuni e dare civile sepoltura alle vittime delle stragi del primo dopoguerra. In alcuni casi sono state create aree cimiteriali o monumentali di rimembranza, in altri i resti furono esumati e, se riconosciuti, consegnati alle famiglie. Nell’ambito di queste ricerche, finanziate dallo Stato, è stata scoperta la grotta (non foiba, trattandosi di estensioni orizzontali) con i resti di 250 persone. Compito della commissione sarà cercare di individuarne le caratteristiche, compreso il modo in cui sono state messe a morte. Potrebbe darsi che si tratti di collaborazionisti sloveni, croati o di altre nazionalità, giustiziati dopo la guerra, ma anche di vittime dei fascisti locali. La vicina Croazia pullula di fosse comuni con i resti delle vittime degli ustascia, ma anche di civili uccisi durante l’operazione “tempesta”, operazione dell’esercito croato diretto da ufficiali americani, con cui un quarto di secolo fa vennero cacciati i serbi. Non rimane pertanto che aspettare gli esiti delle ricerche forensiche sui resti trovati, evitando inutili e spregevoli speculazioni politiche. Si pensi piuttosto a fare qualcosa di simile anche nel nostro territorio. Scoperchiando, per esempio, il “pozzo della miniera Skoda” di Basovizza per esumare gli eventuali resti. Si parla di 187 soldati italiani che vi si trovano ancora dal 1919, essendo morti in seguito alla “febbre spagnola”. Sarebbe un atto di giustizia e di verità. Ma c’è chi preferisce speculare e non vuole sapere la verità. Sono questi i veri “negazionisti”.
Stojan Spetič