Una divisione del lavoro?

Di questi tempi con l’introduzione del cosiddetto “smart working” (lett. “lavoro simpatico, accattivante” non “intelligente”) ad opera di qualche “illuminato” del XXI secolo, si sta sentendo la diffusione di una nuova concezione del valore del lavoro, per cui chi è tanto fortunato da poter lavorare da casa propria con una connessione internet, a proprio carico, tanto la usano anche i figli per la scuola o i programmi televisivi a pagamento, svolge un lavoro comunque remunerato. Al contrario deve accontentarsi della cassa integrazione o altri aiuti economici chi per lavorare deve andare in fabbrica, (luogo affollato per definizione, probabilmente, quei soloni, non hanno mai visto il capannone di una filatura con dieci file di dieci macchinari ognuno con dieci spole che avvolgono filo, e soltanto una lavorante per fila, e già cinquant’anni fa le quelle operaie indossavano le mascherine davanti a naso e bocca.) svolge un lavoro di cui si potrebbe fare a meno. Non serve costruire cose, ognuno può, usando una stampante “3D”, procurarsi gli oggetti che servono, e se una di queste stampanti per plastica o resina costa un paio di migliaia di euro, quelle per metalli che pure esistono, costano un milione e più. Per l’abbigliamento ci sono le manifatture negli scantinati del Bangladesh o delle Filippine; Armani, Prada, Gucci e gli altri marchi della moda hanno gli spazi per mantenere distanze di sicurezza.  Se sono assolutamente contrario alle fughe in avanti dei potentati locali come Fincantieri che autocertificano di rispettare tutta la nuova normativa sulle distanze di sicurezza, devo riconoscere che moltissime famiglie, soprattutto quelle monoreddito, siano in difficoltà, anche perché in moltissimi casi, con figli che continuano a studiare, si sono dovuti attrezzate di computer e reti domestiche nel più breve tempo possibile, e la fretta non è buona consigliera di risparmio e convenienza. D’altro canto spesso nei casi di lavoro a casa, che ha avuto diminuzioni di reddito marginali, c’era solo un computer tanto per wikipedia basta. Adesso ad esempio se in una famiglia ci sono i genitori impiegati ed un figlio alla scuola media di apparecchi elettronici con video-camera e tutti accessori ne servono 2 o 3 completi, e non mi sembra che qualche impresa o gli enti locali ne abbiano dotato i dipendenti. In ogni caso qualunque spesa o costo è a carico del lavoratore, non certo dell’azienda quale che sia. Che dire poi della situazione del comparto agricolo, non ostante le difficoltà economiche di cui parlavo prima, sembra che nessuno sia più disponibile a lavorare la terra, gli italiani hanno raggiunto quel benessere che permette loro di lasciare questa incombenza esclusivamente agli immigrati possibilmente di colore, oppure sono le organizzazioni che controllano il caporalato che non vogliono pagare un lavoratore con documenti in regola? Probabilmente lo fanno per il nostro bene, perché i prezzi dei generi alimentari al consumo rimangano bassi, e se ci sono rincari costanti questi dipendono solo dai trasportatori non certo dagli agrari. Questa divisione del lavoro tra informatizzato, moderno e smart e in fabbrica, tradizionale, antiquato e pericoloso, sta avanzando come dicevo in maniera strisciante. La storia delle stampanti 3D, se non sbaglio, era stata tirata fuori dal candidato sindaco di Trieste del Movimento 5 stelle a proposito del fatto che non servivano investimenti cinesi sul porto. D’altra parte una maggiore informatizzazione del paese era ed è tra gli auspici del Movimento, che si è sempre rivolto ai suoi elettori tramite i mezzi della rete. Scardinare il concetto di luogo di lavoro dove confrontarsi con altri nella stessa situazione, è per noi un’idea che, come lavoratori i quali hanno sempre praticato sindacato e politica proprio sul posto di lavoro, compromette assolutamente tutte le relazioni tra padronato e forza lavoro non più organizzata o organizzabile, con tutti i vantaggi possibili per il primo.

Tullio Santi