Il 13 luglio 1920 – 2020

Pubblichiamo il contributo del compagno Stojan Spetič alla discussione sulla cerimonia prevista per il 13 luglio tra Trieste e Basovizza – Basovica

Lunedì 13 luglio saranno cent’anni dall’incendio del “Narodni dom”, il centro culturale ed economico delle comunità slave di Trieste.  Quella sera i fascisti devastarono anche una dozzina di uffici e sedi slovene e socialiste. Il fascismo di confine anticipò  l’ondata di violenza che colpì il resto del Paese dopo la “marcia su Roma”. Fu l’inizio di quella che allora chiamarono “bonifica etnica” della Venezia Giulia. Ad un secolo di distanza temporale una serie di cerimonie ufficiali, alla presenza dei Capi di stato d’Italia e della Slovenia, ricorderanno quell’evento in un clima di spregiudicato revisionismo storico accompagnato dall’indeterminatezza rispetto alla necessaria condanna della violenza fascista che, dopo un ventennio di sopraffazione e discriminazioni, sfociò nella tragedia della guerra pagata a caro prezzo dai popoli aggrediti ed infine dallo stesso popolo italiano. Questo lunedì i presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor, dopo aver deposto corone al monumento ai quattro antifascisti fucilati nel 1930 ed alla cosiddetta “foiba” di Basovizza, si recheranno nella sede della Prefettura per firmare una “dichiarazione di intenti” sulla “restituzione” alla comunità slovena locale del Narodni dom, ora sede della facoltà di lingue dell’università di Trieste. Infine si recheranno nell’edificio di via Filzi per consegnare due onoreficenze ufficiali allo scrittore triestino Boris Pahor, di 107 anni, che fu testimone diretto dell’assalto fascista e della devastazione che ne seguì. Boris Pahor aderì alla resistenza slovena, fu arrestato dalla Gestapo ed inviato in un lager nazista. Sopravvisse e testimoniò tale esperienza nei suoi romanzi tradotti in quasi tutte le lingue moderne. Le cerimonie di lunedì hanno suscitato forti polemiche, probabilmente per la loro improvvisazione e la poca chiarezza di intenti, specie per quel che riguarda la “storica visita” dei due capi di stato alla foiba ed al monumento ai fucilati sloveni. Gli antifascisti sloveni fucilati nel 1930 per ordine del Tribunale speciale fascista non furono mai riabilitati, né la loro condanna fu annullata, malgrado simili sentenze della Corte costituzionale. Risultano pertanto (dal punto di vista giuridico) dei “terroristi” e sarebbe stato opportuno che il Presidente Mattarella avesse provveduto alla cancellazione della condanna come richiesto dai parenti dei “martiri di Basovizza” che tutta l’Europa conobbe all’epoca essendo stati le prime vittime della violenza fascista, ancor prima che Hitler salisse al potere in Germania. Non è un caso che in Italia si dimentichi lo stretto legame che i giovani fucilati a Basovizza ebbero con il gruppo di Giustizia e libertà dei fratelli Rosselli. Persiste invece l’ambiguità politica dei vari governi italiani che da vent’anni si rifiutano di pubblicare e distribuire nelle biblioteche e nelle scuole la Relazione della commissione italo-slovena di storici sui rapporti tra le due nazioni confinanti nell’arco di un secolo e che tratta anche i nodi delicati delle foibe e dell’esodo istriano considerati nel loro contesto storico e nelle dimensioni accertate. Il fatto che ogni 10 febbraio, col Giorno della memoria, dal Quirinale scendano parole esasperate su presunti genocidi, pulizie etniche, violenze comuniste, sicuramente non agevola gesti di conciliazione sbrigativi e privi di reale contenuto. Non a caso il presidente sloveno Borut Pahor viene fortemente contrastato nella sua scelta di rendere omaggio alla cosiddetta “foiba” (il pozzo della miniera Skoda) di Basovizza trasformata nel periodo della “guerra fredda” in centro di agitazione antislava ed anticomunista per presunti “eccidi di massa”. In ciò viene ora decisamente supportato dall’attuale governo sloveno, di estrema destra, che pubblicamente promuove l’identificazione tra antifascismo e terrorismo. Le autorità italiane però rifiutano decisamente la proposta, fatta persino dal leader neofascista Almirante, di svuotarla del suo contenuto identificando eventuali resti umani per dargli civile sepoltura. Nell’estate 1945 gli alleati lo fecero estraendone cadaveri di soldati tedeschi, carogne di cavalli ed il corpo di un aguzzino della Banda Collotti. In seguito il Comune di Trieste e gli stessi eserciti alleati ne fecero una discarica, parzialmente svuotata da una ditta di recupero di metalli. Ora circolano voci secondo cui sul fondo del pozzo si troverebbero i resti di 180 militari italiani, morti nel 1919 in seguiti alla “febbre spagnola”. I loro nomi sarebbero evidenziati in documenti conservati negli archivi comunali. Sarebbe questo un buon motivo per esumarli e fare chiarezza su quello che, a tutti gli effetti, pare un “cenotafio”, monumento puramente simbolico di fatti avvenuti probabilmente altrove. L’accusa rivolta al presidente sloveno è che accettando la duplice cerimonia a Basovizza avrebbe consentito di mettere in ombra il ricordo dell’incendio fascista del Narodni dom e l’importanza della sua restituzione simbolica alla minoranza slovena. Perchè “simbolica”? In prefettura i due capi di stato firmeranno una semplice “dichiarazione di intenti” in cui si ribadisce l’intenzione di restituire l’edificio alla comunità slovena, cosa che – nella migliore delle ipotesi – potrebbe avvenire tra una decina d’anni, non prima.  La “restituzione” del Narodni dom è prevista dalla legge n.38 del 2001, nota come legge di tutela della minoranza slovena. In essa si prevede che l’edificio venga dato “in uso” alla minoranza slovena ed alle sue istituzioni, a partire dalla Biblioteca nazionale degli studi. La legge prevede che ciò avvenga tramite un accordo tra l’Università, il Comune di Trieste e la Regione Friuli Venezia Giulia entro cinque anni. Altrimenti ci penserebbe il Governo entro sei mesi. Insomma, per la legge 38/2001 il Narodni dom avrebbe dovuto essere restituito agli sloveni alla metà del 2006! Ovviamente non è stato così e, del resto, anche l’edificio del Narodni dom periferico di San Giovanni avrebbe dovuto essere risistemato e restituito negli anni ’50, ma se ne parlerà ancora tra qualche anno. Le procedure sono infatti complesse. Il Comune di Trieste dovrebbe concedere i ruderi del palazzo Gregoretti 2 nel comprensorio dell’ ex OPP all’Università cui spetterebbe la sua ristrutturazione. Solo in seguito a tutti questi passaggi la facoltà di lingue potrebbe traslocare a San Giovanni liberando l’edificio in via Filzi dando la possibilità alla fondazione costituita dagli sloveni di entrare in possesso dell’edificio. Che andrebbe totalmente ristrutturato seppure non potrà mai tornare al passato splendore quando l’architetto Max Fabiani ne fece un esempio di multifunzionalità modernissima. Basti pensare che il palazzo ospitava un teatro, una palestra, una scuola di musica, un ristorante, un caffé, un albergo (il Balkan), una banca, appartamenti privati ed uffici di professionisti. La ristrutturazione dell’edificio dovrebbe essere finanziata dal bilancio dello stato.  Ecco spiegato perché l’idea della restituzione entro un decennio pare addirittura troppo ottimista. Non è per nulla impossibile che in tutto questo tempo non ci si imbatta in nuove difficoltà create ad arte per riaprire il contenzioso tra i nostri paesi. Basti pensare alla mai abbandonata pretesa di riconsegna dei beni abbandonati nella ex zona B per i quali la Slovenia ha già pagato il saldo pattuito ad Osimo, ma che tutti i governi italiani, di destra o di centrosinistra, si sono rifiutati di incassare pur di tener aperto il problema. Per non parlare della restituzione delle opere d’arte trafugate in Istria durante la guerra e che si trovano a Trieste. Ma tant’è…  Resta il fatto che cerimonie frettolose e puramente propagandistiche non apriranno uno sguardo al futuro di convivenza tra i nostri popoli vicini che può e deve essere fondato sulla ricerca storica onesta, obbiettiva e cooperativa, così come è stato per il lavoro della commissione mista di storici italiani e sloveni. Un futuro di integrazione economica e di collaborazione tra i porti, nel sistema dei trasporti, nella “green economy”. In un clima di integrazione culturale dove la lingua non sia più barriera insormontabile tra la gente dello stesso territorio.  E non va mai dimenticato che non siamo all’Anno zero della nostra storia. I nostri popoli sono stati uniti dal sangue dei partigiani italiani, sloveni e croati versato nella comune lotta per la libertà. Lottarono insieme i partigiani del IX Korpus con i garibaldini friulani, l’Intendenza Montes, la “Fratellanza” sopra Fiume, il battaglione “Tito” di sloveni fuggiti dal carcere di Spoleto unitisi alla Resistenza italiana in Umbria… E tanti singoli. Per citarne uno solo: Anton Ukmar (Miro), sloveno di Prosecco, dirigente nazionale del PCI, animatore della resistenza antifascista in Abissinia, poi combattente in Spagna, maquì in Francia ed infine comandante garibaldino nell’Otrepò pavese ed infine liberatore di Genova.

Sono queste le fondamenta dell’amicizia e della conciliazione cemento di pace tra i popoli vicini. Purtroppo vengono lasciate nell’ombra avvolte nella nebbia delle ambiguità politiche.