Nella polemica, spesso sguaiata, che promana dalla scadenza referendaria del 20-21 settembre, la lobby del SI sguaina continuamente l’accusa, verso cittadine e cittadini che si organizzano per impedire l’ennesimo scempio della democrazia, di essere “populisti”; come dire che puntano a mobilitare gli ignoranti ed i contrari a prescindere, per impedire una imprescindibile azione di modernizzazione delle strutture istituzionali. Ci risiamo anche con il “ce lo chiede l’Europa” con la reiterazione delle norme di austerità della “Spending Review”. Mescolando nel pentolone del “populismo” il disprezzo per tutte le espressioni di contrarietà al taglio della rappresentanza parlamentare, di sinistra, di destra, dei centri più o meno democratici, mentre si rivendica ai colti, agli esperti, agli specialisti, ai devoti dell’efficienza istituzionale, che per convenzione non sono né di destra né di sinistra, si è creato il ceto che ha il diritto, più o meno esclusivo, di fare e disfare leggi, diritti e doveri.
Sono gli stessi soggetti, i colti, che puntano ad escludere dalle sedi istituzionali i rappresentanti dei “populisti”. Spigolando sulla stampa estera (l’informazione italiana è sostanzialmente inutile su temi di qualche spessore) si viene a scoprire, su Le Monde Diplomatique di agosto, che il termine “populista” viene adottato nel 1891 negli Stati Uniti, precisamente nel Kansas, creato da un neonato partito di coltivatori. I quali non erano affatto contrari alla scienza e all’istruzione, difendevano i concetti di stato previdenziale e di intervento dei poteri pubblici in ambiti sociali: caratterizzato dell’abbandono del sistema valutario del tallone d’oro (più noto come Gold Standard), la nazionalizzazione delle ferrovie, la lotta ai monopoli. Quello a cui erano contrari era lo stato di privilegio di cui si circondavano gli appartenenti alle élite culturali ed economiche dell’epoca. Scomparsi elettoralmente in una decina d’anni, ricompaiono nel 1929 a Elk City, Oklahoma, con la creazione di un sistema di modici versamenti tramite i quali sostenere un sistema di sanità cooperativa per avere, tutti, accesso alle cure mediche e dentistiche, e ad un ospedale di prossimità; i soci eleggevano il comitato di gestione. Il fondatore un medico di nome Michel Sadid, con il sostegno del sindacato dei coltivatori (Farmers Union). Sadid sosteneva di lottare per il popolo americano “per sottrarsi alla dominazione dei privilegiati che sta conducendo il paese sulla strada della dittatura e del caos”. I quali privilegiati, nel caso l’Associazione dei Medici Americani (AMA) non tardarono un attimo a dichiaragli una guerra spietata, espellendolo dall’associazione e minacciando ritorsioni pesanti verso gli altri medici che avevano aderito, compresi quelli di una cooperativa simile a Washington. L’AMA si spinse fino ad avversare, con successo, la legge sulla sanità per tutti preparata dal presidente Harry Truman nel 1948. L’aggressione a qualsiasi tentativo di creare una sanità anche per i non abbienti è proseguita negli anni, in maniera definita isterica da un medico inglese chiamato a dirimere uno scontro simile in Canada, nel Saskatchewan. Il barone inglese, dottor Taylor, scriveva nel 1974 che l’AMA svolgeva “un’opposizione isterica, a qualsiasi forma di assicurazione-malattia pubblica e si impegna, non senza un certo successo, a trasmettere questa isteria ai medici come all’opinione pubblica…” Questo messaggio isterico si componeva di diversi elementi: la democrazia viene descritta come una tirannia, gli strati sociali inferiori osano immischiarsi di affari di cui non capiscono nulla (che si tratti di economia, di politica estera o, quando capita, di medicina) la stampa, ovviamente, fa blocco. Il movimento populista non è che la rivolta dei dementi e dei ritardati mentali.
Questo atteggiamento di disprezzo per chi si oppone al disegno dei detentori del potere, oggi si ritrova principalmente nell’ambito della discussione economica,. La corrente dominante, il neoliberismo culla e allevatore del pensiero unico, che riserva solo ai “dotti”, agli “esperti”, agli “operatori della settore finanziario” (ovviamente devono essere ben allineati) il diritto ad esprimersi sulle scelte fatte e da fare, come portatori di semplice buonsenso, con i loro enunciati: “Il debito pubblico è un pericolo per le generazioni future”, “Un mercato del lavoro più flessibile permette di combattere la disoccupazione”, “Il libero scambio giova a tutti”.
Sono i concetti contro cui si impegna, con una trattazione tanto ampia quanto semplice e comprensibile, il docente di economia francese Thomas Porcher, della Paris School of Business con il suo libro: “Trattato di economia eretica” edito da Meltemi.
Già nella premessa vengono evidenziati gli elementi critici della formazione economico-sociale in cui ci ha condotto il pensiero neoliberista, con le considerazioni sull’esplodere della pandemia del Covid-19. Tagli perpetrati da anni alle strutture e al personale di cura, aggiungono impossibilità di cure adeguate ai danni provocati ai lavoratori dalla mancanza di dispositivi di protezione e del non rispetto delle regolamentazioni antinfortunistiche. Mancanza che si aggiunge alla grande difficoltà e al salato prezzo necessaria reperire all’esterno i mezzi mancanti. Porcher segnala che tra il 2011 e il 2018, in Italia sono stati tagliati oltre 37 miliardi dalle spese sanitarie, perdendo oltre 70.000 posti letto e chiudendo 359 strutture oltre all’abbandono dei piccoli ospedali.
Ma non è che in altri settori le cose vadano diversamente. Le chiusure di importanti realtà produttive, o il loro trasferimento alla ricerca di salari e tasse più bassi portano a licenziamenti massicci, a blocco o riduzione sia dei salari che delle assunzioni.
A queste situazioni i “dotti” rispondono giocherellando con concetti e cifre come PIL, avanzo primario, spread e simili, cui attribuiscono valore indiscutibile, accusando chi li avversa, di incompetenza e irresponsabilità.
È con questi strumenti che i liberisti costringono la riflessione di chi vuole contrastare l’ideologia del loro potere in un ambito di “ragionevolezza”, da cui si esce solo se utopisti inconcludenti. Per Porcher ci si libera da questo schematismo mentale capendo che l’economia non è una scienza neutrale, che produce risultati indiscutibili.Ad esempio la risposta a chi propaganda riforme a sostegno dell’occupazione, dando per elemento di partenza che siano i disoccupati la causa dei propri problemi, si trova nella constatazione che tra il 2000 e il 2013, l’Italia ha attuato 47 riforme a sostegno dell’occupazione, con una disoccupazione del 12,3%, la Spagna 39 con disoccupazione al 26,2 e la Grecia 23 con il 27,5 di disoccupati mentre la Germania solo 6 con un tasso del 5,3%.
Altro ambito dove la contraddizione tra “dotti” e realtà si manifesta in tutta la sua dannosità è la cosiddetta “lotta al riscaldamento globale (COP 21)”, che trova gli aderenti in perfetto accordo nel sottoscrivere un mazzetto di 40 pagine dal quale sono espunti non solo gli indicatori dei motivi del fenomeno, ma anche qualsivoglia obbligo attuativo per gli Stati firmatari. Fare il confronto con gli accordi commerciali oggi in gran voga i vari transatlantici (TAFTA e CETA),o come quello tra Unione Europa e Viet Nam, siglato il 26 giugno 2020 (di 1400 pagine!), spiega qual’è l’interesse dei governanti liberisti, per i quali: “la flessibilità del mercato del lavoro è tale solo per quanto riguarda la riduzione dei diritti dei lavoratori, mai quelli dei padroni e degli azionisti”.
Porcher articola il suo lavoro tramite innanzitutto l’individuazione dei reali significati di concetti e parole di uso comune nell’universo degli economisti e politici liberisti, principiando dall’affermazione che l’economia non è una scienza. Così come è completamente antiscientifico il postulato sociale del liberismo, che intesta all’individuo la responsabilità unica del proprio successo o fallimento, smontando i miti attuali come Elon Musk, Steve Jobs o Mark Zuckerberg.
Particolare attenzione viene dedicata alla guerra del capitale finanziario contro la spesa pubblica, indicata come unico creatore del debito, mentre il libero scambio viene esaminato nella sua funzione di arma di dominio di massa dei paesi ricchi su quelli poveri.
A conclusione, l’autore fornisce la propria elaborazione di dieci principi di autodifesa contro il pensiero dominante.
Anche usando questi strumenti, ricercando e diffondendo gli studi e le opere di divulgazione dei non pochi, in realtà, che pensano con la propria testa e non subiscono la volontà del “pensiero unico” oggi largamente dominante non solo in America e in Europa, si può costruire uno schieramento di cittadine e cittadini che sappia rispondere con un deciso NO, a chi per l’ennesima volta sta puntando a demolire la democrazia italiana, per aprire sempre maggiori spazi al liberismo economico e sociale.
Andare al referendum del 20 e 21 settembre con una preparazione non solo giuridica, ma politica, è il modo migliore per far vincere i diritti della democrazia e del lavoro.
Paolo Iacchia
