Nel suo intervento all’inaugurazione della posa della statua di D’Annunzio in piazza della Borsa, venerdì 12 settembre, l’assessora triestina Angela Brandi ha chiarito oltre ogni dubbio il significato dell’iniziativa.
Non l’omaggio al letterato, al poeta nazionale, né la celebrazione del concittadino illustre, dato che D’Annunzio con Trieste praticamente nulla ebbe mai a che fare; bensì la rivendicazione del nazionalismo più becero, gonfio di razzismo antislavo, come pure dello spregio per le relazioni internazionali dell’Italia di quei tempi, non cancellato con la strumentale appropriazione del concerto dei tre presidenti da parte di Di Piazza. L’esaltazione dell’occupazione di Fiume, con tutto il suo bagaglio di distruzioni, di comportamenti arbitrari e umilianti, di utopie narcisistiche passate per atteggiamenti rivoluzionari, ben si colloca nel clima di revisionismo reazionario che infesta da alcuni anni la vita sociale e politica italiana, come fanno fede le invocazioni contenute nei discorsi di Tajani e Salvini. Comportamenti, quelli tenuti a Fiume da D’Annunzio, perfettamente in linea con i precedenti comportamenti attuati durante il conflitto bellico, come l’episodio costato la vita a Giovanni Randaccio e a un gruppo di suoi soldati a Duino a fine maggio del ’17, come riportato anche ultimamente nel libro “Trieste selvatica” di Luigi Nacci per Laterza. Per realizzare l’idea di D’Annunzio di far esporre la bandiera italiana sulle rovine del castello di Duino da dove, secondo lui, sarebbe stata visibile a Trieste, provocando l’insurrezione della città, manipoli italiani si avventurarono nell’azione. Ben visibili invece dalle truppe austro-ungariche, i soldati italiani vennero falciati a raffiche di mitra e, di fronte all’ammutinamento di alcuni reparti, D’Annunzio diede l’ordine di sparare contro i soldati che protestavano; si rifiutò anche di far cessare le sofferenze del maggiore Randaccio, che, gravemente ferito, chiedeva la pastiglia di cianuro che D’Annunzio portava sempre con sé affermando che: “Era necessario che soffrisse affinché la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità della morte”. Oggi abbiamo chi si vanta di onorare un simile miserabile, tramite mostre, un libro e una statua di terza mano. Ma si deve anche ricordare, da comunisti, che il percorso che è giunto a questi esiti ha avuto appoggi ben precisi, a cominciare dall’appello sui “ragazzi di Salò” del neopresidente della Camera dei Deputati Luciano Violante, proseguendo con i Presidenti della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che istituì il “Giorno del ricordo” e Giorgio Napolitano che nei suoi discorsi commemorativi ha spinto il revisionismo fino a invertire i dati della realtà storica. Questi sono i reali iniziatori dell’attuale ondata di aggressività verso Croazia e Slovenia, che rivendica con atteggiamenti colonialisti il ritorno del dominio italiano su quelle terre, già aggredite e sottomesse durante la sciagurata impresa bellica fascista. A questi attacchi alla Costituzione nata dalla Resistenza contrapporremo già dal prossimo anno il Centenario del vero e proprio pogrom antislavo rappresentato dall’incendio del Narodni Dom e i 90 anni dalla fucilazione degli antifascisti sloveni e croati a Basovizza. Mentre la statua appena posata apparirà come cupa minaccia, durante lo svolgimento, in piazza della Borsa, della rassegna di cultura slovena rivolta agli italiani dello Slofest.
Paolo Iacchia